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vitty
Utente Master


Città: napoli


1930 Messaggi

Inserito il - 05/06/2015 : 18:19:34  Mostra Profilo Invia a vitty un Messaggio Privato  Rispondi Quotando
Ciao GPSini! Ho pensato che qui sul forum mancava una sezione dedicata a racconti (brevi o lunghi che siano), così come a brevi o lunghe riflessioni che a volte nascono spontanee e che non possiamo fare a meno di imprimere su carta... Vorrei condividere con voi un racconto che ho scritto qualche mese fa, ascoltando a ripetizione una canzne chiamata "Holding hands when we die", che ho scelto come titolo.
Boh, magari è una grandissima stupidaggine, ma vorrei farvelo leggere
Fatemi sapere!!

HOLDING HANDS WHEN WE DIE

Il chiostro di San Francesco scintillava del bagliore di un giorno di piena estate che stava appena albeggiando all’orizzonte. Le prime luci di un mattino di luglio irradiavano riflessi aranciati sui sanpietrini della piazza, regalandole un timido risveglio che sapeva della dolcezza di cornetti alla crema appena sfornati e di cappuccini fumanti spolverati di cacao, dell’aroma del caffè che invade un nido d’amore prima che la frenesia quotidiana cominci, ineludibile, a scandire incomprensioni e tensioni lavorative e domestiche.
Ma quel giorno, per Stefano ed Helene, non ci sarebbe stato posto per alcuna nota stonata. Il momento in cui si sarebbero dichiarati complicità eterna era finalmente arrivato e l’azzurro delle onde non lasciava intuire nient’altro che presagi di pura gioia, di un futuro roseo e scintillante, come erano le numerose medaglie vinte da Stefano. Poco importava che fossero di circuiti teatrali di nicchia. Helene lo aveva amato fin dal momento del loro primo sguardo, avvenuto sei mesi prima. O meglio, prima ancora del suo viso, la giovane berlinese aveva notato quei piedi, quelle gambe, quelle braccia che si muovevano sul palcoscenico come animate da una forza divina. Nessun movimento era minimamente accennato, e l’intera coreografia scorreva via in un battito di ciglia, struggente, quasi eterea, senza che alcuno sforzo sembrasse compromettere il sentimento che quel buffo folletto dalla pelle candida imprimeva come solchi sul palcoscenico. Passo dopo passo, Stefano aveva marcato a fuoco anche il cuore di una timida ma risoluta ragazza tedesca, e non aveva esitato a scorgere nei suoi occhi e nella sua voce la stessa passione che lei aveva percepito sbocciare osservando danzare l’angelo che le aveva salvato la vita. Il ragazzo aveva da subito intuito l’ombra grigia che velava di malinconia, a tratti di timore infantile, lo sguardo turchese di quella fanciulla minuta, dai lunghi capelli corvini elegantemente intrecciati, che sedeva a bocca aperta in prima fila. E quando, dopo la sua esibizione, la trovò paralizzata mentre cercava di trovare il coraggio di bussare alla porta del suo camerino, avvertì che qualcosa in lui era cambiato per sempre. Imbarazzato, le porse il bicchierino colmo di caffè che aveva acquistato al distributore del teatro, e una voce sottilissima lo rifiutò educatamente, dichiarando con marcato accento tedesco di preferire il tè nero alle rose. Quella stessa sera, a cena, Stefano restava ammaliato dalla voce di Helene, un mezzo soprano a cui l’Opera aveva permesso di superare i tormenti di un orfanotrofio che aveva velato di uno strato oscuro la sua fanciullezza. Uno strato che, con immensa ammirazione della giovane, Stefano era riuscito a dissolvere nel giro di una sequenza di fluide movenze di contemporaneo.
Niente disagi, nessuna vergogna e nessuna elucubrazione, ora che il giorno simbolo della loro vita insieme era finalmente giunto insieme col canto delle rondini che sorvolavano il golfo sorrentino.
L’idea di Stefano di sposarsi alle prime luci dell’alba era stata accolta con gioia dalla sua amata, entusiasta di mettersi subito in viaggio verso la loro dimora nello splendido scenario toscano. Aveva invece riscosso molto meno successo tra gli invitati, accorsi comunque in massa e con le lacrime agli occhi per prendere posto nel chiostro di San Francesco.
Lo sposo sudava, gli tremavano le mani; a tratti accennava qualche passo alla Gene Kelly per scaricare la tensione più dolce che avesse mai provato in ventotto anni di vita. La mano dell’amico Lorenzol, conosciuto al suo debutto teatrale nel musical di Peter Pan, gli si posò sulla spalla arricchendo l’attesa di una complicità che solo anni di amicizia possono consolidare.
<Hey, John Matthew Agenore Darling, hai visto che alla fine sei riuscito a fregare Wendy a Peter?!> gli intimò con fare scherzoso.
Non ci fu tempo di elaborare una risposta. Helene stava facendo il suo ingresso nella suggestiva cornice del chiostro.
La felicità, l’amore, tutto a portata di mano. La mano che le scostò il sottile velo puntellato di microcristalli, scoprendole le gote appena sottolineate dal trucco.
La cerimonia ebbe inizio.

Il cielo limpido che si staglia fuori da questa dannatissima finestra stride con la tragedia che sto vivendo. Buffo. Se avessi pensato una cosa del genere ai tempi del liceo, forse sarei riuscito a beccare uno straccio di sufficienza da quell’arpia della Martini. Perché tutto arriva sempre troppo tardi? Perché io non riesco più a correre?
“E’ assurdo pensare che a volte le cose non vadano bene, e vadano rese”…
No. Basta. Non ne posso più di questo verso insignificante. Tiziano Ferro stavolta non ci ha preso, non ha capito nulla della vita. Non è vero che l’amore è una cosa semplice, non esistono i “regali più grandi” e quelle poche persone che hanno veramente due isole negli occhi non possono allietarci più del dovuto con la loro vicinanza.
Almeno avessi ancora qualcuno a cui chiedere “Xdono”, a cui scattare una foto, con cui rifugiarmi ad Amsterdam… Ormai non faccio altro che ripetermi “Stop, dimentica”.
Salve, ho trentadue anni. Sono un ragazzo di Prato, un tempo ballavo per passione e per mestiere e ora non ho neppure il coraggio di aprire gli occhi al mattino. La verità è che vorrei solo sparire da questo schifo di mondo. Penso all’amico di una vita. Lo so, sono un essere spregevole e non gli sto permettendo di starmi accanto. Maledetto me. Lui vorrebbe soltanto prendermi la mano e insegnarmi a ballare di nuovo con lo spirito selvaggio con cui le persone che più amavo mi hanno conosciuto su quel palco.
Ma io non posso. Non ce la faccio e non me lo permetterò. Non me ne frega se il mio stipendio fa ridere i polli. Ho solo bisogno di rafforzare il muro che ho dentro.
Mi dirigo verso il davanzale e abbasso le veneziane. Ultimamente il sole mi dà troppo fastidio. Sarà meglio abbassare anche il volume dei miei pensieri, non si sa mai.

<EVVIVA GLI SPOSI!!!>
Una ventata di chicchi di riso ci colpì da ogni direzione. Ero offuscato dalle mie lacrime di gioia, che si fondevano con le sue ogni volta che le baciavo la tempia, mentre cercava di controllare che non le fosse colato del mascara. Era splendida. Ed era finalmente diventata la mia sposa che, di lì a cinque mesi, avrebbe messo al mondo la nostra nuova vita. La nostra bellissima Amanda.
Guardavo il mare, e poi il mio sguardo correva di nuovo su di lei, la mia dea dalla voce sublime. Avevamo deciso di non organizzare festeggiamenti pomposi, o meglio, di sintetizzare il momento della festa in quello di massima condivisione: la pronuncia del “sì” che aveva colorato fin dall’infanzia il mio sogno più profondo, quello di famiglia.
Ed ora, salendo nella Cinquecento vecchio modello che il nonno ci aveva regalato come dono di nozze, mi accorgevo di essere l’uomo più fortunato del mondo. Mi lasciavo alle spalle una magica Sorrento che avrebbe continuato ad offrirsi alla vista dei nostri amici e parenti; davanti a noi c’era un futuro di complicità, di infinito; al mio fianco avevo la donna più forte e bella dell’universo: una delle poche persone che mi aveva accettato non nonostante la mia stravagante passione per la danza, ma proprio grazie a questa. E sicuramente l’unica con cui avrei bevuto il primo caffè del mattino per il resto della mia vita.
Eravamo in viaggio verso casa nostra quando, carezzandomi i capelli e ammirandosi la fede, Helene cominciò a cantare a voce piena la canzone che avevamo composto insieme. Era in inglese, perché avevamo deciso che sarebbe dovuta rimanere universale fino alla fine dei tempi. E poi l’inglese era la lingua prediletta dell’artista italiano che aveva dato un titolo al nostro amore. Tiziano Ferro ci esortava a respirare piano con la sua “Breathe gentle”, ma noi ormai avevamo spiccato il volo, proprio come le rondini del mattino, e il nostro canto disperdeva del vento parole di eternità.
“Hope the last voice you’ll hear is mine, hope you feel every joy that I feel, and the last blue I see is the blue of your eyes”…
Ero sicuro che l’ultimo blu su cui il mio sguardo si sarebbe posato sarebbe stato quello dei suoi occhi.

Percorre il corridoio a passo svelto, quasi con l’intenzione di accelerare per poi decollare e sfondare l’azzurro del cielo, come la donna cannone di una famosa canzone.
Come la sua donna.
Quel giorno sarebbe dovuto essere il suo quarto anniversario di matrimonio.
“Hope I cry every tear, every tear that you cry”…
Lei non aveva più lacrime da versare; lui, invece, aveva perso la facoltà di lasciarsi andare alle emozioni.
“Without you all I got is a hundred years on an empty earth”…
Già, proprio così. Una terra vuota, ma mai quanto il cuore spezzato di un uomo innamorato della vita.
“Without you there will never be rime or reason for me”…
Un giovane e bellissimo uomo il cui unico desiderio era quello di urlare ancora una volta “Ti amo”, e che la sua rabbia grondante d’amore fosse udita dalla sua sposa e dalla sua bimba.

Ventuno Luglio, Prato, ore 19.30
<Sai quel luogo? Quello tra il sonno e la veglia, in cui ricordi ancora ciò che stavi sognando?>
<Aspetta… Intendi dire quel luogo che spalanca le porte dell’Isola che non c’è, mio John?> civettuò lei, facendogli l’occhiolino e accoccolandosi sul suo petto.
<Esatto, madame! Anche se, mi perdoni se la correggo...> scherzò il neo sposino assumendo un tono da secchione <… il mio nome è John Matthew Agenore Darling, sa? Sono il fratello di Wendy! Be’, sì, lei è molto più famosa di me da quando ha incontrato quel…come si chiama…Prete Pane?>
<PETER PAN!> gridò Helene, sinceramente felice di recitare quella scenetta che Stefano –ormai l’aveva capito- utilizzava sempre prima di confidarle qualcosa in cui aveva davvero riposto ogni sua speranza, che si trattasse della loro bambina o di progetti lavorativi che potessero migliorare le offerte dell’Accademia di Arti Sceniche di Prato, dove entrambi insegnavano.
<Ah, sì, Prete Pane, e che ho detto io? Ad ogni modo, bella moretta, hai presente quel posto di cui ti parlavo?>
<Ah, ah. Allora?>
Fu l’ultima volta che Stefano ebbe occasione di stringerla, prima che un incidente d’auto permettesse a lei e alla sua creatura di ricongiungersi con le stelle che le avevano inviate sulla Terra a dipingere proprio la sua vita con una luce irripetibile.
<Be’… Quello è il posto dove ti aspetterò e ti amerò per sempre>.

Ventuno Luglio, Accademia delle Arti Sceniche, Prato. Ore 24.00.
Accende il sintetizzatore e vi inserisce un demo che ha ritrovato quella mattina in un vecchio baule. Sono passati quattro anni dalla tragedia che ha sconvolto la vita di un giovane e bellissimo uomo che, da allora, non ha mai più danzato. Un uomo che si è volontariamente privato della più sublime modalità di espressione di cui la natura gli abbia fatto dono, rinchiudendosi in una dimensione di autolesionismo estremo per non essere riuscito ad arrivare in tempo.
A salvarle la vita.
Da quando la sua dolce Helene è volata in cielo, l’energico e solare Stefano si è sentito in dovere di morire per non aver rispettato il suo patto di complicità eterna, quello cantato con la voce del cuore durante il suo ultimo felice viaggio in auto.
“When our story is over, we’ll fine: hope we both holding hands when we die”…
Be’, il destino non gli ha permesso di stringerle la mano al momento dell’ultimo addio.
Eppure, quello stesso destino gli ha concesso di ritrovare un demo che la sua sposa aveva inciso prima del matrimonio e che avrebbe voluto inviare ad alcuni discografici che l’avevano notata nel ruolo di Maddalena, in una versione tutta toscana del musical Jesus Christ Superstar. Helene era entusiasta di quel progetto, che le avrebbe offerto l’opportunità di condividere il palco con alcuni dei suoi idoli più grandi. Persone dal cuore immenso che, prima ancora che bravissimi artisti, erano stati per lei dei fari nella notte.
Qui non c’entra il tempo che passa, che pure fa sempre il suo dovere. Non conta l’esterno. Non ha importanza il mondo che avanza con le sue disgrazie e le sue brutture, né l’ipocrisia umana a cui, nostro malgrado, non ci sarà mai fine.

Stefano aveva solo bisogno di ritrovare quel demo per riscoprire queste verità, più o meno dolci, ma in grado di offrire certezze inattaccabili.
Gli ci voleva solo quel piccolo cd per imparare a essere di nuovo fiero della sua immagine riflessa nello specchio. Si era impedito di vivere per quattro anni, nel fermo intento di continuare a sentirsi in colpa per non esserle stato accanto quando se ne stava andando. Perché il senso di colpa è un sollievo malato, che si fonda sull’assurda illusione che, con un colpevole, il dolore verrà cancellato.
Stefano sapeva che il disagio di vivere senza lei non sarebbe scomparsi da un giorno all’altro, ma iniziava a intuire che, se solo si fosse concesso la possibilità di librarsi ancora con la sua arte, il dolore sarebbe diventato pian piano una più banale inquietudine, prima di sfumare del tutto e lasciargli un indelebile solco sotto gli occhi.
Non volle più esitare.
Non volle più odiarsi, perché lei, loro, nel luogo tra il sonno e la veglia dove si trovavano, lo avrebbero amato in eterno e avrebbero potuto continuare a parlargli, a sorridergli, a consolarlo e incoraggiarlo solo attraverso i passi di danza che li avevano fatti innamorare.
Ora basta..

“I turn the page my story ends, I said goodbye to all my friends”…
Stefano lascia che le lacrime gli righino il volto e si infrangano sul parquet. Riesce quasi sentirne il colpo.
Libra le ali che ha sempre avuto ai piedi e lascia che non siano più costrette dalle catene che lui stesso si era costruito. La voce di Helene riempie la sala, si riversa nelle vene del suo sposo che finalmente riprende a respirare.
“I’ll keep holding on, I’ll keep singing my song, it gets me through it, I’ve got the scars to prove it”…
Mentre propende ogni tendine verso il divino, continua a credere che l’amore non sia una cosa semplice. Ma in lui si fa strada la probabilità che un giorno, magari, potrebbe essere così.
Che sia vero che tra le ombre si può crescere?
“I know the road is long, but I’m staying strong”…
Ogni viaggio ha un inizio e una fine, e se la fine ci induce tristezza significa che il viaggio è stato bello e che si ritorna a casa con una valigia piena di ricordi.
“I changed the clocks back again and asked forgiveness for my sins, in shadows we can grow, I will see you soon”…
L’energia ricomincia a fluire nei meandri del suo essere, nutrendoli con nuova linfa vitale. Stefano ringrazia Dio per essere un uomo che sa amare, che sa godere dell’affanno e della fatica che invadono il petto e le membra al termine di una danza.
<Vale sempre la pena di viaggiare. Ti amo, amore mio. So don’t cry, this is not my last goodbye>.
…Dedicato a chi riesce a scorgere isole negli occhi altrui.


Modificato da - vitty in Data 05/06/2015 18:34:14

jane
Utente Medio



Regione: Friuli-Venezia Giulia
Prov.: Gorizia
Città: Monfalcone


303 Messaggi

Inserito il - 05/06/2015 : 18:31:53  Mostra Profilo Invia a jane un Messaggio Privato  Rispondi Quotando
Maledetta!!! Farmi piangere così, NON SI FA!!!!

GPS, è o no una scrittrice incredibile? Io adoro il suo modo di scrivere e sono molto d'accordo su questa discussione! Se riesco metterò anche io qualcosa, che per chi non lo sa io amo scrivere

Ultima cosa, vi consiglio di cercare la canzone è ascoltarla dopo aver letto... Ditemi se non vi viene un brivido lungo la schiena...

Con questo mi congedo e torno a scrivere, CIAO!

se c'è una stella lassù per me io la seguirò,la seguirò lassù!




sarò per te strana,sarò per te pazza,ma una cosa è certa...non sono sola! cit. Jane


keep calm
and
love Manuel
Frattini

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